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lunedì 22 aprile 2013

Semidirettivi e Democrazia

Umberto Antico
di Umberto Antico
Giudice del Tribunale di Napoli

Napoli, 6 aprile 2014



Il parterre dei semidirettivi nominati dal C.S.M. è quanto di più variegato possibile. Accanto a uomini e donne di spiccata intelligenza, di dedizione al lavoro e di capacità gestionali rare, troviamo anche uomini e donne di ridotte capacità gestionali e di scarsa volontà.


Ciascuno di noi ha fatto tale esperienza e ha potuto constatare che l’attesa dei quattro o degli otto anni, talvolta, non è stata cosa da poco! Le incertezze, i dubbi, i salti nel vuoto o le occasioni sprecate sono stati a volta irreparabili.

Ma le risorse ci sono!

Sono intorno a noi!

Solo che con l’attuale sistema di reclutamento i criteri di appartenenza prevalgono troppe volte sul merito.

Come porvi rimedio? Affermando “ecce homo”? Eccomi qui? Risolverò io perché mi batterò per la scelta di Tizio piuttosto che di Caio?

Troppo facile e banale.

Decisamente poco credibile.

E’ il metodo che è fallace, indipendentemente dalle intenzioni buone o cattive degli esaminatori.

E allora cambiamo il metodo.

Prima, però, è opportuno fare un salto indietro nel tempo.

La temporaneità degli incarichi direttivi e semidirettivi è stata introdotta dal decreto legislativo 160/2006 e, secondo la normazione secondaria, lo scopo è stato quello di considerare l’incarico “semidirettivo” non più come una gratificazione per il lavoro svolto, ma come una missione da svolgere in cui riporre le proprie energie a servizio del modulo organizzativo.

Nella conferma, dopo i primi quattro anni, poi, il CSM richiede ai Consigli Giudiziari di valutare il semidirettivo sotto il profilo della “idoneità organizzativa, di programmazione e di gestione dell’ufficio e dei settori di questo affidati al magistrato, da valutarsi alla luce dei risultati conseguiti e di quelli programmati nonché l’attività giudiziaria in concreto espletata….” (Delibera del 29.04.09).

Il sistema attuale, quindi, induce il semidirettivo a trovare il “nuovo” modello organizzativo, ad adottare “nuove” procedure, a gestire in modo creativo per poter presentare, dopo i primi quattro anni, il conto di quanto fatto elencando iniziative e direttive, impilando circolari e progetti.

Questo meccanismo espone i colleghi alla “novità”, spesso fine a sé stessa, di moduli organizzativi, di riunioni, di circolari funzionali talvolta solo ad una apparente produttività da ostendere agli organi di autogoverno.

Ci troviamo, a volte, iniziative assolutamente divergenti. Per la stessa materia, ad esempio, un ufficio dà rilevanza al momento collegiale e un altro esalta la funzione del giudice delegato ed entrambi i moduli ricevono indiretta approvazione grazie alle conferme quadriennali dei rispettivi semidirettivi.

A questa deriva dell’incarico semidirettivo bisogna, a mio modesto avviso, porre fine.

Il semidirettivo deve essere un organizzatore del lavoro dei magistrati affidati al suo ufficio e proprio perché deve farlo in uno spirito di servizio, i suoi compiti devono essere democraticizzati.

Non è accettabile che un semidirettivo modifichi in forza delle sue personalissime idee, procedure e oliati meccanismi organizzativi.

Sono dell’idea che ogni decisione che non sia “ordinaria amministrazione” deve passare non solo per una consultazione dei diretti interessati, ma per una votazione ed approvazione (o veto) a maggioranza (anche qualificata, se del caso).

I moduli organizzativi devono essere fatti da chi li vive, non devono essere imposti dall’alto.

Solo una condivisione di schemi e meccanismi è un servizio reso alla magistratura e ai magistrati perché cumula le sensibilità e le esigenze di chi vive la giurisdizione tutti i giorni.

Il dirigente deve essere l’organizzatore e l’esecutore di un metodo e di schemi organizzativi votati dai magistrati in assemblee sezionali perché sono i magistrati a scrivere sentenze e a tenere udienze.


Solo un dirigente capace di ottenere la partecipazione dei suoi colleghi e di sottoporre a revisione critica i moduli scelti va valutato come idoneo a proseguire nella sua missione, escludendo quell’obbligo di “risultato” che sta spingendo la giurisdizione verso logiche di produttività che non le appartengono.



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